Introduzione
Sono un "educatore per caso". Se il caso esiste. A volte infatti mi vien da pensare piuttosto all' inevitabile compimento di un destino. O ad una spinta poco consapevole ma incontenibile: curare gli altri per sanare le proprie ferite.Il corso di riqualifica mi ha guidato faticosamente dalla condizione di "operatore informe" (indaffarato ma senza competenza educativa) alla nuova condizione di educatore in formazione.
Le mie esperienze iniziali
Lavoro in una comunità per minori
L' équipe non ha grande preparazione pedagogica (il coordinatore é preparato ma un poco in burn out). Questo si paga in alcuni casi: difficoltà a relazionarsi con ragazzi provenienti dal Beccaria; un certo moralismo (per esempio rispetto al problema del "fumo"); scarsa preparazione nel seguire un ospite con problemi di tipo psichiatrico.Lavoro nelle tossicodipendenze
Il "modello di comprensione" (esplicitato o latente) é crudo: espiazione.Il servizio é degli operatori che costruiscono per gli ospiti un percorso di riabilitazione. Chi non si adegua tradisce
Lavoro con malati psichiatrici
E' un tuffo nell' ignoto. Fantasmi di non prevedibilità. Ansia. Paura della violenza altrui, della malattia, della morte (tentati suicidi, tagli). Insicurezza. Nostre proiezioni. Non sentendosi contenuti i pazienti non si contegono. Noi "operatori" enfatizziamo il bisogno di tecnica. Sdraiati ai piedi degli psichiatri, ci consegnamo mani e piedi alle indicazioni dei servizi invianti.Episodi importanti.
Ad es. il burn out di una collega, che teme l' ospite S. La scuola mi aiuta. Comincia in me uno spostamento. Inizio a de-centrarmi. A pormi domande nuove. La casa é mia o di S? S, al centro, emerge nella sua fastidiosa ma nuova vitalità. Interrogo la sua aggressività. Forse é comunicazione: ci comunica la sua paura del cambiamento (é uscito da un lungo letargo). Emerge l' altro, con le sue potenzialità, possibilità e risorse. Lui é il protagonista della sua vita, con la sua storia e i suoi buchi neri per me insondabili.
Avviene un ridimensionamento del mio immaginario, un depotenziamento dei miei fantasmi: S. dipende da sé, io al massimo lo posso accompagnare, sostenere.
La rinuncia all' onnipotenza produce meno paura.
Il recupero della storia dell' altro lo rende meno ignoto. Per quanto inconoscibile non potrà esser più distruttivo di quanto non sia stato prima. Non é un U.F.O.! Ha dei meccanismi e una logica. E' una persona umana, non una diagnosi e una spaventosa malattia. Ha sempre dei margini di miglioramento.
Entropatia
Riconosco nelle sue angosce lo stesso sapore della mia paura, della mia fragilità e inadeguatezza. Filtrate dalle mie, riconosco le sue sofferenze. Riconosco la sua e la mia sofferenza.
Allora ricerco un' armonia (che curi entrambi).
La promozione del benessere (reciproco), la promozione della felicità (possibile) divengono obiettivi di lavoro. Costruzione di occasioni (che non sono solo costruzione di un setting, ma anche creazione di un' atmosfera).
In questa ottica (di ridimensionamento della mia onnipotenza e di nuova attenzione alle potenzialità altrui) avviene anche la rivalutazione delle regole e del senso della "pressione", ma nelle piccole (e grandi) cose quotidiane, contrattate con lui (nel senso qui di una contrattazione flessibile e "permanente).
Dopo alcuni mesi accetto il ruolo di responsabile. E' un azzardo ma anche l' unica linea di resistenza possibile. Non condivido a sufficienza i modelli riabilitativi e la stessa concezione organizzativa dell' Ente. Allora mi colloco al margine (con la mia struttura e la mia équipe). Cerco spazi non colonizzati (dalla Filosofia e dalle tradizioni dell' Ente). Cerco di trasferire nella mia équipe il modello che ho "annusato" nella relazione con S. e la collega in burn out: lavoro per la promozione del benessere individuale e collettivo (di operatori, volontari, obiettori ed utenti). Cerco di curare la dimensione esistenziale che ognuno mette in campo.
Rielaborare l' esperienza
Non si impara dalla pratica tout court ma piuttosto dall' esperienza (che é pratica "rivisitata", rielaborata dalla riflessione). Questa rielaborazione non é un processo automatico. In primo luogo occorre l' umiltà di riconoscere i propri limiti ed una presa di distanza dalla pratica corrente.
Occorre assumere uno "sguardo di apprendimento", cercando una visuale diversa dal solito, una posizione nuova ed illuminante.
Le finalità del corso
Oggi possiedo anche qualche risposta in più e mi si fanno più chiare le finalità del corso :
- la ricerca di un modello di lavoro educativo più aperto, elastico, flessibile, democratico, comunicabile.
- l' elaborazione di un metodo esportabile anche nel lavoro con altre utenze (non solo coi tossicodipendenti)
- la proposta di un' educazione non violenta
- l' impegno costante all' autoformazione per creare una nostra autonomia professionale (contro modelli predefiniti, tipici del lavoro con la tossicodipendenza).
L' autoformazione mira a promuovere autocoscienza, attiva un processo permanente che contrasta la tendenza alla sclerotizzazione, rischio presente in ogni situazione educativa. Non si può infatti produrre cambiamento negli altri se non si é nell' ottica del cambiamento proprio.
La complessità del fenomeno "educazione".
Il concetto di educazione.
Possiamo definire la pedagogia come "la scienza umana che studia il fenomeno educativo per come appare nella sua effettualità e complessità". Una riflessione critica sul "farsi" del fenomeno educativo e formativo.
Molte sono le prospettive da cui guardare al fenomeno educazione.
Taluni ne sottolineano gli aspetti di tipo valoriale. L' educazione, cioè, vista come trasmissione di valori.
Altri ne enfatizzano il ruolo esistenziale. Attraverso l' educazione le persone diverranno se stesse.
V' é poi chi pensa all' educazione come elaborazione, come passaggio dall' esperienza alla rielaborazione. La crescita sarebbe legata alla capacità di rielaborare. Educare sarebbe l' attitudine ad offrire esperienze ed aiuto nella loro rielaborazione.
E ancora c' é chi concepisce l' educare come emancipare: insegnare a riflettere per gestire sé stessi.
L' educazione é dunque un fenomeno complesso.
In primo luogo é azione educativa. Non é fatta solo di relazione (intesa come comunicazione e affettività) ma consiste in fatti, eventi, dinamiche concrete.
Essa ha poi dei contenuti. L' istruzione, l' emancipare, il tirar fuori, il promuovere, si realizzano proprio attraverso i contenuti proposti.
Mira a conoscere le cose per cambiarle. Ha come dimensioni essenziali il tempo e il cambiamento. Organizza un cambiamento nel tempo.
L' educazione si occupa di tutte le età dell' uomo. E' sviluppo, accudimento, accompagnamento, emancipazione.
Appare subito inscindibilmente legata alle idee di rieducazione, cura, terapia.
Il processo formativo rimanda poi a numerose altre tematiche: il tema dell' iniziazione, la dimensione affettiva, le dinamiche inconsce, le motivazioni all' educare e la fantasmatica dell' educazione che coinvolge potentemente tanto il formatore che il formando.
La pedagogia é ideologia
La pedagogia costruisce dei modelli, delle visioni del mondo. In questo senso é ideologica. E ci fa spostare dal piano della scienza a quello dell' interpretazione (congettura da rimandare all' altro per un confronto).
L' importante dunque é esser consapevoli che vi sono vari modelli di educazione, tutti artificiali, costruiti in un "farsi" e (si auspica) in un confronto continuo ed aperto.
Ne esce un concetto di educazione più complesso, che non si accontenta di dagnosi ed etichette e non intende imporre all' altro proprie ricette.
L' approccio da "scientifico" diviene interpretativo (che resta scientifico ma in un modo diverso). E' la conoscenza dell' altro (e della realtà) come spirale, continuo farsi di teorie interpretative, verifiche, aggiustamenti ecc. Il metodo stesso é costruito con l' altro e servirà all' altro per la sua emancipazione.
La relazione fra educatore ed educando
L' educazione é essenzialmente relazione.
La relazione é sempre ricca di elementi inconsci e latenti (transfert, seduzione, proiezioni, collusione, bisogno di riconoscimento ecc.). Anche nella relazione fra educatore ed educando tali elementi sono in gioco (da entrambe le parti). Perché sia funzionale in senso educativo (e non controproducente) tale affettività va resa consapevole e padroneggiata.
Allo stesso modo occorre padroneggiare i molti canali della comunicazione (il corpo, le posture, gli abiti, il linguaggio verbale e non ecc.), costruendo e mantenendo un setting adeguato.
Di fronte all' altro occorre porsi con cautela, attenti a non smantellare prematuramente le sue difese. Saper sospendere la diagnosi, per evitare conclusioni condizionate dal pregiudizio.
Inoltre occorre ricordare che non v' é scissione fra affettività e azione. Tutto, nella relazione e nella comunicazione, avviene nei fatti e tutto assieme (nella parola, nella corporeità, nel sentimento, nel fare o non fare). Tutto, dunque, va controllato.
Transfert e controtransfert
Importanti dinamiche latenti nella relazione educativa sono il transfert e il controtransfert. Sono termini mutuati dalla psicanalisi
- Il transfert
Tutte le volte che c' è una relazione formativa (anche per il fatto che è una relazione eminentemente asimmetrica) il formando rimette in atto risposte inconsce, investimenti affettivi ed emozioni sperimentati durante le esperienze formative precedenti ed in particolare durante quelle originarie (primitive), più importanti (legate, di solito, al rapporto con la madre e col padre). E' lì infatti che ha iniziato le proprie relazioni affettive.
Come nel setting psicanalitico il paziente investe l' analista, così, nel rapporto educativo, il formando investe l' educatore di tali contenuti affettivi.
Il transfert dunque è il trasferimento o la messa in atto dei modelli relazionali fondativi (i primi sperimentati, che sono di solito, ma non necessariamente, quelli parentali). Il transfert è il desiderio inconscio del formato sul formatore.
- il controtransfert
E' la risposta inconscia, emotiva, ai desideri di un altro nei miei confronti.
E' l' insieme delle risposte emotive ed inconsce del formatore al transfert del formando.
Nel setting formativo il controtransfert offre all' educatore la possibilità di capire meglio i desideri dell' altro, di "mettersi nei suoi panni". Ma il formatore deve restare l' adulto che guida l' altro alla rielaborazione.
Nella relazione educativa transfert e controtransfert si danno inevitabilmente. e ciò impone un costante presidio mentale, che solo consente di essere guida, sostegno, contenimento.
Il tempo nella formazione
Nell' esperienza educativa si incontrano due tempi: il tempo del formando e quello del formatore. Il primo deve essere rispettato, perché ognuno ha naturalmente una propria scansione del tempo ed ogni elaborazione e formazione devono modellarsi su tale scansione. Non a caso il bambino autistico, coi soi dondolii, cerca di ristabilire un ritmo che é il proprio tempo interno contro il tempo esterno ed estraneo.
Distanza comprendente
Nella relazione è fondamentale il tema della vicinanza/distanza (nei confronti dell' altro).
L' approdo auspicabile per l' educatore, sarebbe quello di una "distanza comprendente": sto abbastanza lontano perché il formando possa fare le proprie esperienze ma all' interno comunque di un mio contenimento, se occorresse.
La distanza comprendente é la nostra competenza nel razionalizzare quel che accade, offrendo all' educando una lettura che lui non riuscirebbe a fare.
Occorre sviluppare un modello di educazione come indicazione, capace cioè di indicare e di render visibile all' altro ciò che ancora non lo é. Il modello di educazione come indicazione però può fondarsi solo sulla fiducia (reciproca). In tale situazione le parole del formatore possono davvero cambiare l'altro.
La fantasmatica della formazione
La relazione educativa é asimmetrica e legata al prendersi cura. E' fortemente regressiva e rinvia ai primissimi anni della nostra vita ed alle esperienze allora provate (nostra nascita, nostro accudimento ecc.).
Sono queste le esperienze originarie della nostra formazione (della nostra stessa formazione intellettuale).
La relazione educativa si collega a fantasie di questo tipo: far nascere, esser madre, ostetrica. Oppure allo scolpire, creare col fango e forgiare.
I miti della formazione
Un' analisi dettagliata dei "miti della formazione" é contenuta in un articolo di Enriquez.
Egli disegna le seguenti figure di formatore:
- il formatore formatore
- il formatore terapeuta
- il formatore maieuta
- il formatore interpretante
- il formatore militante
- il formatore riparatore
- il formatore trasgressore
- il formatore distruttore
- il formatore tecnocrate
In primo luogo c' é da osservare che il termine stesso di formatore é molto "pesante" (rinvia all' idea di qualcosa che è informe e verrà totalmente determinato dallo stampo che si imprime).
In molti dei nove miti emerge una idea di educazione autoreferenziale: da un lato il desiderio di formare come risarcimento per cose mancateci in passato o per cose perse e da riguadagnare; dall' altro l' identificazione ("io ho passato queste cose ed ora ti offro un sostegno perché tu riesca a rielaborare da te quello che accade").
Il formatore parte da propri desideri: costruisce sé e nello stesso tempo usa altre persone. Questo progetto latente (che spesso può coincidere con un progetto inconsapevole di autoformazione) configura la formazione come violenza. Il rischio é che il formatore fissi lo sguardo tutto su di sé, senza minimamente vedere (e rispettare) l' altro.
Per questo é importante cercare di leggere quale dei nove miti stiamo di volta in volta incarnando.
Idee di formazione
Esistono diversi modelli di riferimento rispetto all' idea di formazione. Da un lato il modello che pone l' accento sul ruolo del formatore nella relazione educativa (intesa nell' accezione un po' magica e ambigua del Mentore).
Dall' altro l' idea di una formazione senza contenuti predeterminati e con meno asimmetria fra educatore e formato.
Per altri ancora è possibile una mediazione, consentita dal fatto che il formato non é passivo ma restituisce un feed back (attraverso il quale il formatore si forma). Qui l' autoformazione sarebbe reciproca (riesco a leggere i messaggi dell' altro e sono abbastanza flessibile da cogliere anche l' inaspettato).
In effetti l' autoformazione scatta quando inizio a "relativizzare" il modello che metto in gioco in modo latente (destrutturazione; abbattere i nostri paletti per ascoltare l'altro).
I luoghi dell' educazione
La famigliaLe problematiche della formazione rinviano all' analisi dei "luoghi dell' educare" (famiglia, scuola, gruppo, vita extrascolastica ecc.). E' lì che si trova, appunto, la materialità del processo formativo. Ascoltare l' altro significa cercare di ascoltare la sua storia e la storia dei suoi luoghi formativi (primo fra tutti, appunto, la famiglia).
Utilizziamo qui come punto di partenza un libro, la ricerca di Massa e Demetrio "Le vite normali" (ed. Unicopli, Milano, 1991) ed in particolare il capitolo di Paolo Mottana dal titolo "Le sorgenti: le figure della ripetizione". Si tratta di una serie di interviste a studenti (non più adolescenti e non facenti parte di categorie particolarmente problematiche) sui luoghi della loro formazione.
Primo dato emergente: in tutte le interviste l' "imputazione primaria" di quel che si é risulta attribuita ai genitori. Quasi si tratti di una sorta di imprinting che trasmetterebbe i codici del comportamento, dell' affettività, del linguaggio, della sessualità e le rappresentazioni sui ruoli primari della socializzazione.
Così descritto il peso della famiglia pare ineludibile. Non resta che adeguarsi all' imprintig o, al più, trasgredire (andando per una via opposta, ma altrettanto condizionata e dipendente).
Dalle interviste l' impronta familiare emerge spesso come destino. E' una traccia antica, poco elaborata, che rimettiamo di continuo (e di solito inconsapevolemente) in circolo.
La famiglia da regole e valori che poi vengono interiorizzati. Sembra impossibile separarci dall' immagine che la famiglia ci ha consegnato di noi; immagine per lo più in negativo (divieti dietro i quali sono nascoste proiezioni, aspettative ecc.).
Questi meccanismi (interiorizzazione della norma, proiezione, identificazione ecc.) funzionano sempre e, attraverso un continuo gioco di specchi, gli altri o le situazioni rimettono continuamente in circolo i nostri meccanismi abituali.
Le interviste sembrano mostrare persone schiacciate dal loro bisogni di appartenenza forte (in questo caso alla famiglia), tanto da sentirsi incapaci di una scelta propria. E questa immagine negativa di sé é nata molto presto, da piccoli, sulla base di esperienze originarie, corporee ecc.
L'educazione violenta
Spunti tratti da "Educare o punire" (1991) di Tomkiewicz e Vivet.
I due autori danno questa definizione di violenza: "violenza é qualsiasi azione commessa (dalla istituzione o nella istituzione) e qualsiasi omissione (commessa dalla istituzione o nella istituzione) che comportino sofferenza e blocco della evoluzione psicofisica".
E' dunque un concetto di violenza intesa non solo come azione ma anche come omissione.
E' inoltre un concetto relativo: al periodo storico; ai diversi ambiti socioculturali; allo sguardo della società che determina il consenso, la legittimità o l' illegittimità di una condotta (siamo in un' ottica di relativismo culturale).
Basti citare i diversi orientamenti verso il bambino "problematico". In area anglosassone si privilegia un' impostazione di stampo comportamentista (tecniche di rieducazione, violenza come trattamento scientifico). In Francia, invece, si ricorre preferenzialmente alla psicoterapia.
Vi sono violenze fisiche ma soprattutto psicologiche (non rispetto; violazione dell' intimità e della corrispondenza; non coinvolgimento nel progetto; svalutazione dell' utente o della sua famiglia; imposizione di soli obblighi, in un' ottica fondata sulla difesa degli adulti e sulla colpevolizzazione).
Violenza come omissione (o "violenza in negativo")
Si realizza in molti modi:
- assenza di progetto
- differenza fra progetto manifesto e progetto latente.
Spesso, per esempio, l' eccesso di pulizia e igiene in una comunità copre l' assenza di pedagogia.
- rifiuto della pedagogia
Il non intervento educativo é sempre violenza. Oppure c' é una pedagogia direttiva, o ancora pedagogia apparentemente libertaria ma in realtà lassista
- assenza di psicoterapia
(nei casi in cui potrebbe essere utile o necessaria)
- assenza di felicità (
Korkzak parlava proprio della violenza come assenza di felicità. In effetti nel concetto di salute non si fa (quasi) mai rientrare la variabile felicità. Occorre invece costruire un progetto per la promozione della felicità. Si pensi a quanto possono fare, in proposito, la "fiaba della buona notte", la personalizzazione degli spazi, un cibo cucinato con fantasia e passione, la promozione nell' utente di una nuova rappresentazione di sé.
L' istituzione statica
Sempre seguendo le indicazioni di T. e V. vediamo ora come nella vita degli istituti troppo spesso ci siano elementi che direttamente o indirettamente configurano situazioni rigide e violente.Eccone un elenco:
- la regolamentazione del processo terapeutico.
Totale terapeutizzazione della giornata. Nessuno spazio - tempo vuoto, libero.
- mancanza (o carenza) di dibattito e arricchimento culturale.
- negligenza: il non fare.
- utilizzo della figura carismatica.
Carisma usato come strumento educativo. In realtà il carisma (non controllabile) é spesso una maschera vuota, un surrogato della competenza educativa (che é invece passibile di verifica).
- primato del "già pensato", del "già fatto".
Educatori indaffarati più che attivi.
- assenza di uno spazio aperto.
Lo spazio pieno risponde a mire di controllo e rafforza la dipendenza. Discende dalla paura latente che la comunità ha del cambiamento (compreso quello dell' utente). Corrisponde ad una idea di educazione come ripetizione. Invece occorrerebbe promuovere uno spazio aperto, indispensabile per ogni lavoro riabilitativo, capace di una vera funzione educativa, promotore di cambiamento e ristrutturazione della personalità.
- assenza di verifica.
Invece dovrebbe darsi continua verifica (della professionalità degli operatori, dell' esito nel tempo di chi ha finito il programma ecc.). Solo la verifica promuove capacità di riforma (ma ciò accade solo in un progetto dialettizzato, fondato su un pensiero aperto e vitale).
Linee di resistenza
Queste riflessioni sulla violenza introducono poi il tema delle "linee di resistenza", elementi capaci di contrastare questi processi di cristallizzazione e staticità ed idonei ad arricchire la persona e il suo sviluppo.
Sono "linee di resistenza":
- lo spazio vuoto
(libero, non sempre congestionato e riempito di "attività riabilitative").
- il tempo vuoto
(che non è tempo libero, ma tempo per pensare, spazio per la rielaborazione, luogo in cui la gente può incontrare il proprio vuoto imparando a gestirlo).
- l' arricchimento culturale
(a tutti i livelli: della comunità, dell' équipe, dell' operatore, dell' utente).
- il rafforzamento dell' autostima
Fattori di cambiamento
Un percorso di riabilitazione psicosociale é un percorso produttore di cambiamento. Nel triennio del corso abbiamo identficato alcuni fattori di cambiamento (che sono ad un tempo "indicatori di un concetto di salute"):
- ampliamento della sfera affettiva
- sviluppo di una pluralità di identità
- autonomia cognitiva di valutazione degli eventi
Ampliamento della sfera affettiva.
Significa aiutare gli utenti ad entrare in contatto col mondo delle loro emozioni e dei loro affetti. Prenderne pian piano coscienza e controllo, imparando anche ad affrontare in modo più maturo i lati dolorosi della propria personalità e le vicende più traumatiche della propria storia.
Sviluppo di una pluralità di identità
Abbiamo analizzato un lavoro di formazione svolto a Cossato per conto del Sert locale. Il titolo era appunto: "Sviluppo di una pluralità di identità". Era una raccolta di storie autobiografiche di ragazzi tossicodipendenti. Il dato emerso fu la rimozione di tutta la storia anteriore al primo "buco" (indipendentemente dalla data di tale evento; come se tutta la storia precedente non ci fosse). Tutti i racconti eliminavano l' idea della memoria (come se il ragazzo dicesse: "Io abito in un presente eterno in cui ci sono solo io e la sostanza").
A volte i tossicodipendenti non hanno strutturato fin dall' adolescenza altra identità che quella di tossicodipendente. Oppure hanno raggiunto una strutturazione insufficiente a causa del blocco cognitivo ed affettivo legato alla consuetudine con la sostanza.
Ma l' unica identità (ci) uccide.
Questo vale per tutti. Se ad esempio un handicappato é solo un handicappato, é morto, senza speranze; ma se sviluppa altre identità può lottare, studiare, amare, sposarsi, vivere.
Il problema (di Cossato) allora divenne:
- come dare a questi ragazzi altre identità nel passato?
- come sviluppare altre identità nel futuro?
Come fare poi questo lavoro senza rischiare di smantellare in toto la persona che a quella monidentità di tossicodipendente si aggrappa con forza?
Si decise di fare un lavoro di recupero autobiografico e di far emergere nei giovani tossicodipendenti una immagine di sé più flessibile e più ampia.
Promozione di una autonomia cognitiva di valutazione degli eventi
Un terzo versante di lavoro é la promozione di una autonomia cognitiva di valutazione degli eventi. Favorire cioè la formazione di una testa pensante, che entri nella società in modo critico.
Educazione normativa e educazione come offerta di possibilità.
Educazione intesa in senso prescrittivo e nomativo:
- trasmette valori (dal punto di vista etico)
- trasmette regole (dal punto di vista sociale)
- attiene al "dover essere"
- rimanda ad un "pensiero forte" (che si sente padrone della verità)
Educazione come proposta di possibilità esistenziali.
Qui chi educa non si riferisce a verità predefinite ma a possibilità. Non trascina ad una meta, ma segue con occhio vigile, cercando di salvaguardare il percorso formativo dell' altro.
Idea di salute
Dietro ad ogni intervento di "riabilitazione psico-sociale" vi é un modello (per lo più latente) di idea di salute (dell' utente / dell' operatore) che possiamo raffigurare così:
1) salute come riduzione del sintomo (es. della tossicodipendenza)
2) salute come promozione della autocoscienza
Il concetto di salute maturato durante il corso é più orientato verso il polo positivo. Mira a non accontentarsi della riduzione del sintomo ma a lavorare per lo sviluppo di una personalità equilibrata, non più strutturata sulla relazione di dipendenza.
Quale senso educativo ha il nostro lavoro?
Spesso emerge dalla descrizione delle nostre strutture e dei nostri progetti riabilitativi una idea del tempo come qualcosa di molto scadenzato sincronicamente e diacronicamente. Vi sono fasi, livelli ecc. che richiamano un modello di tipo scolastico. A scuola infatti il ciclo é definito, uguale per tutti, anziché modellarsi sui tempi e sugli obiettivi della persona. Ma come si possono assegnare dei tempi definiti a processi di vita e di cambiamento tanto complessi? Come mai tale definizione univoca del tempo (mentre la percezione del tempo é assai diversa per persone diverse)?
Per chiarire adeguatamente il senso educativo del nostro lavoro occorre imparare ad analizzarne i dettagli, portare alla luce la dimensione sottintesa del nostro approccio. E la dimensione latente delle risposte dell' altro. Occorre far emergere la filosofia sottesa al nostro servizio.
Riflettere sui carichi personali (quotidianità ed emergenza). Spesso un' analisi sincera svela che noi chiediamo all' altro solo adeguamento a regole.
Analisi dei bisogni delle persone e costruzione di proposte educative
La scala dei bisogni é rappresentata da Maslow attraverso una piramide che ha alla base i bisogni fisiologici e poi via via gli altri. Ogni servizio parte da una propria ipotesi di bisogno. Da tale ipotesi scaturisce una data ricerca di risposte. La "Filosofia" del servizio condiziona le nostre scelte rispetto alle ipotesi di bisogno.
Ma l' altro non può divenire uno stereotipo. Occorre aver più chiari i suoi bisogni. Trovare un aggancio. Chiedersi: dove posso incontrare qualcosa di autentico nell' altro?
"L' aggancio".
Il problema dell' "aggancio" é emerso in modo emblematico durante la visita guidata ad un C.A.G.
La funzione del centro è di essere luogo di aggregazione capace di accogliere i ragazzi in un clima libero e sano e di operare per la prevenzione del disagio giovanile. Coi ragazzi gli educatori impostano un dialogo aperto, cercando di far passare messaggi di solidarietà e senso civico senza calarli dall' alto. Spesso l' educatore si trova a svolgere un ruolo di mediazione per la soluzione dei conflitti e per una elaborazione più matura delle frequenti manifestazioni di aggressività e ribellione proposte dai ragazzi.
Un problema molto diffuso è quello del "fumo" che viene affrontato senza divieti moralistici che finirebbero per allontanare proprio chi ha più bisogno di non sentirsi emarginato. L' idea é di offrire un contatto a ragazzi che manifestano così i loro disagi, per poi costruire sulla fiducia conquistata nuovi spazi di dialogo e la proposta di modelli di crescita alternativi alla strada e allo "sballo".
Il tentativo di far prevenzione richiede un' attitudine all' osservazione e all' ascolto. Occorre attenzione alla storia personale del ragazzo e apertura alla comunicazione per cogliere indizi sul reale bisogno di questi giovani. Occorre pure contenimento ma prima é necessario creare una relazione.
Spesso noi ascoltiamo la gente solo per riportarla poi dentro le regole. Ma le regole sono solo una traccia. Invece bisogna imparare ad ascoltare (e se utile a fornire dei rimandi) non per dare direttive ma solo per aiutare l' altro a fare le proprie scelte. Non dobbiamo operare al posto degli altri. Non dobbiamo supplire.
"Muoversi al contrario"
Di fronte a qualsiasi utenza dobbiamo imparare a non essere simmetrici. Quasi automaticamente dobbiamo disporci a fare il contrario di quanto l' utente e la situazione vorrebbero imporci di fare. Se gli utenti velocizzano esser lenti. Se gridano rispondere col silenzio. Se stanno immobili stimolarli. Occorre imparare a muoversi al contrario.
Gli operatori delle tossicodipendenze da sempre "lavorano per..." (per salvare, per redimere ecc.). Le strutture per ex tossicodipendenti si mettono spesso in simmetria con gli utenti. Se gli utenti si agitano tutti si agitano.
Ma non posso angosciarmi ogni volta sull' effetto (imprevedibile) di una mia azione sull' altro. Di fronte a una minaccia di suicidio da parte di un utente (ex tossicodipendente o psichiatrico che sia) non abbiamo risposte. Nessuno può prevedere con certezza cosa intende davvero fare e neppure quale effetto avrà la nostra risposta. E allora meglio tentar di stare su un piano di realtà. Non possiamo rispondere a tutto. Non abbiamo tutte le soluzioni. Non possiamo fare sempre noi al posto degli altri. Facciamo un passo indietro e ascoltiamo! Facciamoci spiegare dall' altro cosa sta provando e pensando. Di solito uno non vuol davvero buttarsi ma al contrario cerca di farsi ascoltare. Noi non siamo mai in una emergenza vera! Non siamo né agenti di pubblica sicurezza né pompieri e neppure giudici.
I tre poli del nostro lavoro: Servizio /operatore/utente
Un altro schema utile per l' analisi del nostro lavoro consiste nel distinguerne i tre poli costitutivi e nel cosiderare la loro interazione:
Servizio (che rinvia a: organizzazione, efficienza, filosofia, obiettivi)
·Utente (che rinvia a: bisogni e domande)
·Operatore (che rinvia a: competenze, sicurezze, rivendicazioni sindacali, richieste economiche).
Rispetto ai tre poli occorre promuovere equilibrio. Per garantire equilibrio occorre che il servizio sia dinamico e flessibile.
Comunque si da sempre un' identificazione prevalente (del Servizio ma anche del singolo educatore) che sposta il peso su uno dei tre aspetti.
Tale identificazione pone il problema della immedesimazione/distanza. Nel nostro lavoro é indispensabile comprendere in che posizione ci poniamo come educatori rispetto al Servizio, alla sua "Filosofia" e all' utente.
Relazione operatore/ente
Spesso di fronte ad un evento pare inevitabile schiacciarsi su due estremi: o collusione con l' utente o adesione passiva alle direttive della struttura. Invece é sempre possibile una terza soluzione: quella di cercare una distanza, del distacco e del tempo per riflettere, discutere ed elaborare delle linee personali. A dispetto di tutte le limitazioni che la struttura può porci occorre ricordare che la responsabilità personale é dell' educatore. Nessuno é schiavo della struttura.
L' ente chiede sempre una forte adesione ed indubbiamente occorre almeno un minimo di coerenza, una certa condivisione di valori e modalità.
Un pregiudizio: la riabilitazione lineare
Occorre misura anche nell' imporre all' utente un' adesione totale. Spesso c' é l' idea (errata) di un percorso lineare (ed uguale per tutti) della riabilitazione.
E' un modello che non ci aiuta a capire le persone. In certi utenti abbandonici, ad es., come pensare ad un percorso riabilitativo uniforme e lineare?
Meglio partire dall' evoluzione dei bisogni delle persone e dal mutare del modo in cui l' utente si relaziona (senza definire noi se è il modo giusto).
Così, di fronte ad una ricaduta dopo otto mesi ci son due possibili risposte: "Fai ancora queste cose !?". Oppure: "Osserviamo cosa ha significato tale ricaduta per te e vediamo ora come reagisci".
Meglio la seconda strada.
La filosofia e l' etica dell' Ente
Le dinamiche complesse che legano Ente, Filosofia, équipe, utente ed educatore sono ben evidenti in un caso portato alla discussione in classe da S.
Sul piano manifesto il caso verte sulla relazione instauratasi fra F. e A. (due ragazze), consenziente T., il marito della seconda. Tutti sono ex tossicodipendenti in programma riabilitativo. Gli eventi collegati hanno prodotto un contrasto nell' équipe (che ha caratteristiche sui generis a causa della connotazione religiosa dell' ente). La spaccatura iniziale é fra chi "si fida e crede che vi sia solo amicizia fra le due" e chi da subito "pensa male". Una spaccatura dunque di tipo morale.
S. (educatrice), poi, si sente tradita dalle due protagoniste.
Discutendo a scuola in primo luogo emerge il fatto che in questa comunità gli spazi di intimità sono limitati (e non solo per gli utenti). La comunità controlla la sfera privata ("é meglio non vi siano distrazioni", cioé no sessualità).
Una domanda che emerge é: cosa si propone qui il "Programma"? La riduzione del sintomo (sanare la tossicodipendenza) oppure una ristrutturazione della persona secondo un modello predefinito? La comunità vuole salvare o accompagnare?
Alcune osservazioni vengon subito fatte.
In primo luogo occorrerebbe chiedersi cosa c' entrano qui la morale o le nostre opinioni?
Prima devo pensare ai bisogni, alle richieste (e al dolore) dell' utenza. La comunità deve accompagnare, non salvare. La comunità é (o almeno dovrebbe essere) per gli utenti e non per gli operatori.
E' il tema (fondamentale) della propria ideologia e del rapporto che si ha con essa.
Ognuno ha una ideologia ma deve esserne consapevole e prenderne le opportune distanze.
S. non parla mai di ruoli e funzioni, come se si realizzasse con gli utenti una relazione informale e non gerarchica. In realtà poi c' é una forte predefinizione delle norme e di ciò che é considerato valore.
Pare che l' etica sia tanto condivisa da considerare la diversità di vedute come un tradimento. Ma se due fanno l' amore in struttura, fanno semplicemente l' amore, non una rivolta contro l' Ente. Una ricaduta dell' utente é un evento della sua vita, non una ripicca contro di noi e la struttura.
Anche il controllo del controtransfert (v. la delusione della educatrice) é un nostro problema (nel senso che siamo noi che non sappiamo gestirlo).
Inoltre non va bene che la comunità predefinisca sempre il giusto e lo sbagliato, i tempi ecc. Nessuno infatti é uguale (ad es. non é uguale la capacità di sopportare lo stress o la frustrazione). Non possiamo imporre ritmi e tempi nostri.
Inoltre occorrono verifiche, periodiche ridefinizioni del contratto, perché la gente evolve. Si dovrebbe programmare in modo quasi automatico una serie di verifiche del contratto: stipula iniziale / verifica dopo 6 mesi / verifica dopo 12 mesi ecc.
I modelli sottesi ai nostri servizi
Nei nostri servizi scopriamo una convergenza di vari modelli (per lo più inconsci o inconsapevoli). E ad ogni modello corrisponde un criterio:
- modello "scolastico" il cui criterio é l' apprendimento (devi imparare tot in tot tempo)
- modello "sanitario" il cui criterio é sintomatico (c' é un sintomo da correggere in tot tempo)
- modello "religioso" il cui criterio é la missione ("entra a far parte della nostra missione!" Si pensi ad esempio agli operatori che han "fatto il programma" e che fondano la loro appartenenza su una adesione di questo tipo).
- modello "militare" il cui criterio é la sanzione
- modello "tayloristico" fondato sulla parcellizzazione del lavoro (es. netta divisione del lavoro fra educatore e psicologo). Per tale modello il criterio é il prodotto.
Tutti i modelli sopra citati agiscono e sono riconoscibili nelle descrizioni dei nostri servizi. Essi avanzano delle pretese (rispettivamente: insegnare, curare, essere apostolici, essere sanzionatori). E in tutto ciò, per quanto ci si appelli alla razionalità, le dinamiche inconsce entrano fortemente in gioco.
Il lavoro educativo é necessariamente un lavoro "debole". Il ricorso a modelli "forti" (come apparentemente sono il modello medico e quello psichiatrico) é spesso una scorciatoia illusoria.
Il lavoro dell' educatore invece é quello della quotidianità ed in essa l' educatore può trovare i propri strumenti (che altri non possono trovare). Nel colloquio, nel fare la spesa, nel lavare i piatti, nell' occuparmi dei genitori, devo trovare il modo di inserire del valore aggiunto, il mio specifico contributo di educatore. Dentro la variabilità del quotidiano devo capire come una persona (proprio lui) nella nostra relazione (di quel momento) mi interroga. Quale bisogno mi esprime.
Dunque, più che chiedere modelli ad altri (lo psichiatra, lo psicologo ecc.) noi educatori dobbiamo trovare un nostro metodo. Conoscere la diagnosi non ci pone di per sé in alcuna relazione con l' altro (é una finzione pensarlo). Ciò é ribadito non per svalutare le conoscenze e le competenze altrui, ma anzi per valorizzarle, ponendole al posto giusto.
La cosa auspicabile é che noi impariamo a costruirci modelli e metodi nostri (da educatori) più che usare quelli altrui.
Orientamento del servizio e bisogni dell' utente.
Altro impegno importante riguarda la capacità di riconoscere, fra i vari possibili orientamenti della terapia, quali sono quelli prevalenti (in modo esplicito o latente) nel nostro servizio.
Orientamenti possibili:
a) verso il mantenimento.
In psichiatria, ad es., il non peggioramento a volte non é statico, ma frutto di dinamismo.
b) di tipo evolutivo
Mirante alla promozione di un mutamento interno
c) di tipo riabilitativo
Mirante a fornire o riattivare "abilità"
d) verso il reinserimento
e) come luogo di transizione.
Luogo di pausa, di passaggio
Ai diversi orientamenti corrispondono cure e atteggiamenti diversi.
A seconda dell' orientamento prevalente si scelgono aspetti da valorizzare e garantire. Così se la struttura é vista come luogo di transizione si privilegia la libertà. Se é un luogo di riabilitazione si curano le abilità.
Più che indagarne il carattere ideologico (argomento poi difficile da discutere) é importante interrogarsi sulla chiarezza (o meno) degli orientamenti prevalenti nei nostri servizi. E sulla coerenza o meno dei nostri atteggiamenti rispetto agli orientamenti della struttura. Questa consapevolezza ci aiuta anche nel corretto esercizio del ruolo.
Occorre poi saper confrontare il nostro punto di vista rispetto all' orientamento prevalente con quello dell' utente. E mantenere coscienza che siamo noi (artificialmente) a definire qual é l' orientamento e l' obiettivo.
E' chiaro poi che nel tempo i codici sono dinamici, così come si richiedono registri diversi per gli stessi individui.
Orientamento della struttura e dell' educatore
V' é l' orientamento della struttura e vi sono le aspettative del singolo educatore. Gli obiettivi della struttura e gli atteggiamenti dell' operatore devono essere coerenti.
C' é il piano della struttura, che privilegia certi elementi (ad es. il maternage piuttosto che la responsabilizzazione). L' analisi di questi elementi ci spiega quale idea di aiuto ha la struttura.
E poi c' é il mondo personale dell' educatore (il "mio" orientamento, in cui io mi colloco meglio).
E' importante ricostruire tali passaggi.
E' utile costruirsi una mappa degli orientamenti prevalenti della struttura e dell' operatore e confrontarla con l' orientamento necessario oggi all' utente. A volte infatti gli orientamenti non sono coerenti e può crearsi conflitto.
La confusione spesso interferisce negativamente nel lavoro riabilitativo.
Aspetti prescrittivi e discrezionali
Il lavoro presso una data struttura ha:
- aspetti prescrittivi (vincoli oggettivi) legati a bisogni dell' utenza e alla storia dell' Ente.
- aspetti discrezionali.
Nel nostro lavoro di educatore vanno però distinte una discrezionalità necessaria per il nostro benessere ed una discrezionalità da ridurre per non ostacolare gli utenti. Anche l' eccessiva discrezionalità é pericolosa e produce senso di onnipotenza ed ansia.
Educazione e disorientamento (analisi del film "L' attimo fuggente")
Un esempio interessante di scollamento fra orientamento dell' Istituzione, orientamento dell' educatore e bisogni dell' "utenza" é fornito dall' analisi del film "L' attimo fuggente", regia di Peter Weiz. La visione del film e la successiva discussione hanno consentito di analizzare l' insieme degli elementi in gioco nella formazione:
motivazioni dell' educazione (consce ed inconsce), fantasmatica dell' educazione, triangolazione Istituzione/ente/educando.
Il film rappresenta la storia della relazione educativa fra l' insegnante Mr. Kitting e gli allievi di un severo college inglese. K usa strumenti come la seduzione, la proiezione, l' identificazione, lo spiazzamento. Invita i ragazzi a sfuggire il conformismo e a cercare nuovi punti di vista. Ma non riesce a padroneggiare tali tecniche e a valutarne le ricadute sugli allievi. Oltretutto si tratta di allievi adolescenti, con la loro duplicità inevitabile (spinta all' identificazione col gruppo dei pari/bisogno di affermazione della propria individualità). A Kitting qualcosa sfugge di mano. Egli stimola un gruppo che da un lato é contenitivo, ma dall' altro é esplosivo. Non sa tenere una corretta distanza. Propone una forte identificazione, crea un legame fortemente affettivo (pieno di elementi inconsci). Ma tutto questo corrisponde a un proprio bisogno cieco (é una sua proiezione; egli non vede l' altro).
Condivisione di un modello formativo
Il problema é questo: come il mio modello interiorizzato si incontra-scontra con quello dell' altro.
Kitting stravolge il modello formativo che i ragazzi hanno interiorizzato (disciplina, regole, codici attesi) causando in alcuni (es. in Neil) disorientamento e assenza di riferimenti.
Kitting stimola (anche la "destrutturazione") ma non contiene. Egli non é consapevole delle proprie dinamiche latenti: la sua disillusione e la proiezione sui ragazzi dei propri desideri irrealizzati. Ma la latenza affettiva non trattata é pericolosa.
Nell' educazione le dinamiche sopra indicate (identificazione, proiezione, seduzione ecc.) sono inevitabili. Ma l' educatore (a differenza di Kitting) deve saper controllare consapevolmente tutte le dinamiche relazionali. Deve riconoscere i modelli educativi (propri e altrui) e, nella fase di "destrutturazione" deve poter offrire un contenimento, una mediazione, delle forme di transizione, dei ponti fra il modello formativo da superare e quello innovativo.
Il narcisismo, il bisogno di riconoscimento ecc, nell' educatore sono inevitabili. Il problema é di divenirne consapevoli e di cogliere l' altro e rispettarlo.
La passione dell' educare nasce da nostri bisogni. Ma ciò richiede consapevolezza e, oltre ad una formazione professionale, una formazione personale.
Il ruolo
Un altro tema importante di cui abbiam discusso a scuola é quello del ruolo.
Spesso si avverte il proprio ruolo come una gabbia (costruita tanto dalle aspettative dell' Ente che da quelle degli altri educatori).
Ma c' è sempre un margine per una propria interpretazione del ruolo. C' é sempre uno spazio discrezionale che consiste nel sapersi porre queste domande: "di cosa mi occupo davvero?
E soprattutto: "a me, quella persona (in quel luogo e momento specifici) cosa dice, cosa chiede?".
Anche il ruolo ha aspetti prescrittivi e aspetti discrezionali e si muove in un andirivieni continuo fra i due poli.
Gli aspetti prescrittivi sono legati a:
- compito affidatomi e responsabilità prescrittami
Gli aspetti discrezionali discendono invece da:
- compito che io mi affido
- responsabilità che mi sento di assumere
Questi aspetti sono sempre presenti (in qualsiasi tipo di lavoro). Devono restare in equilibrio. Il nostro lavoro é costante ricerca di tale equilibrio.
La "filosofia" e la realtà
Molti dei nostri servizi si appoggiano ad una "Filosofia" di "Valori" scritti o comunque dichiarati. Ma é subito chiaro che non basta scrivere o declamare motti (spesso neppure li si desidera davvero!).
Dietro tali valori sovente si cela volontà (o comunque pratica) di potere e prevaricazione.
Spesso c' é volontà di uniformare ("sentiti come ti devi sentire!", diceva una vecchia formula di rimprovero in uso nelle comunità per tossicodipendenti).
E quando tale volontà prevale si impongono:
- un percorso dato cui adattarsi
- delle sanzioni
- un tempo scandito dalla struttura
- nessuna attenzione ai bisogni ed ai tempi individuali e collettivi
- controllo (pretesa illusoria)
-
- In definitiva la formula é: noi decidiamo come darti l' autonomia ("fidati"!).
-
-
Dove lavoriamo? Su cosa ? In che misura?
Per evitare le storture di un approccio "uniformatore" occorre chiedersi sempre: dove lavoriamo? Su cosa e in che misura?
Riconoscere su quale degli aspetti sotto indicati facciamo leva e in che misura (quanto).
Lavoriamo:
- a livello dei comportamenti (più esterno: es. sul look rischio di finzione, sviluppo di una personalità "come se...")
- a livello degli atteggiamenti (già più interno)
- a livello del "sentire" ( del come l' utente da significato alle cose)
- a livello del desiderio (cosa l' utente ed io desideriamo davvero).
Spesso l' attenzione é solo al livello più esteriore, quello dei comportamenti. Sovente lavoriamo in strutture nelle quali si debbono seguire cattivi maestri (un progetto terapeutico non condiviso). Vi può succedere solo quello che succede. V' é una organizzazione del lavoro che ostacola l' auto osservazione. Ci si nutre di stereotipi sull' altro. Si da personalizzazione del lavoro (dell' operatore) e l' unica persona che manca é l' utente.
Per reagire occorre cercare punti di vista personali:
più spazi di apprendimento
e meno sopportazione
Il lavoro con gruppi di persone.
Spesso v' é la convinzione (idea dominante negli anni 70 e rimasta alla base di molti programmi terapeutici per ex- tossicodipendenti) che lo stare in gruppo o in comunità sia di per sé terapeutico e che una microsocietà sia di per sé educativa. Non é necessariamente così.
Tra gli strumenti di gruppo più usati nella formazione v' è il "t group" (o training group). In esso l' ordine del giorno riguarda il "qui ed ora": cosa sta succedendo qui ed ora.
Spesso i "t groups" si svolgono in esperienze residenziali. Mirano a misurare la capacità di relazione in situazioni destrutturate (senza contenuti particolari). Questo modello é confluito massicciamente nelle comunità per ex tossicodipendenti (e non solo) producendo in genere un' intensa esperienza emotiva ma per lo più scarsa elaborazione.
Il gruppo é stato ampiamente studiato tanto come fenomeno sociale che come fenomeno psicologico. Gli studi sociali hanno messo a nudo le dinamiche di gruppo legate al potere, alla leadership, alla decisione ed hanno proposto in generale una visione piuttosto ottimistica del gruppo (anche nel suo ruolo terapeutico).
Gli studi psicologici hanno analizzato gli aspetti affettivi e simbolici della vita di gruppo proponendo una visione più problematica, che sottolinea gli aspetti di aggressività, resistenze e conflitto in gioco.
Le situazioni di gruppo sono sempre complesse, colme di significati, immaginario e latenze. Il tema richiede pertanto un serio approfondimento.
Il gruppo
Il gruppo "funziona" secondo meccanismi noti. Ad es. spesso la coesione interna é forte in presenza di nemici esterni (reali o virtuali).
Di fronte al gruppo é sempre utile chiedersi:
- cos' é che tiene insieme questo gruppo?
- cosa uno ci mette e cosa ne prende?
- cosa uno teme degli altri componenti?
- cosa uno investe nel gruppo?
il gruppo di lavoro
Il gruppo di lavoro si può organizzare secondo due diverse configurazioni: - una in cui la fIinalità prevalente é il confrontarsi e il discutere
- l' altra in cui la finalità prevalente é prendere decisioni
Diverse saranno anche le modalità di lavoro:
nel primo caso si privilegia l' analisi, l' aprire il discorso.
Nel secondo caso si privilegia la sintesi, il chiudere il discorso.
Importante é la chiarezza.
Gruppo: affettività e compito
Nei gruppi di lavoro si danno contemporaneamente due aspetti fondamentali:
1) aspetto affettivo (investimento, riconoscimento, contare, condividere)
2) aspetto dei compiti (lavoro da fare).
Occorre riconoscere il peso dei due elementi e scegliere garantendo un equilibrio funzionale (specie nel rapporto coi colleghi). La confusione infatti crea corto circuito.
E' necessario capire quale dei due aspetti (compito /affettività) é prevalente e fino a che punto posso privilegiarne uno senza compromettere l' altro.
Spesso sotto l' apparenza di un problema di lavoro si cela una difficoltà di relazione affettiva.
Occorre chiarirsi qual é l' oggetto di lavoro del gruppo (o almeno l' oggetto prevalente).
E' poi importante riflettere sul nostro (e altrui) modo di stare nei diversi gruppi e di partecipare ad essi (parlare, tacere, tipo di attenzione ecc.)
Tipo di gruppo
Nei nostri servizi v' é un uso enorme di gruppi di vario genere. La maggior parte di noi passa più di metà del proprio tempo lavorativo in gruppo. Da varie testimonianze emerge l' esistenza nel lavoro sulle tossicodipendenze di gruppi con oggetto diverso:
a) gruppi di tipo "liberatorio" (in cui ciascuno ha il diritto di esprimere quello che prova)
b) gruppi di "elaborazione" (che mirano a produrre pensieri su sentimenti ed emozioni).
Spesso però si usa un gruoppo senz aconoscerne origini e caratteristiche.
Tipo di conduzione
I due diversi tipi di gruppo presuppongono una diversa conduzione:
a) conduzione come stimolo e sollecitazione (all' espressione)
b) conduzione come fare domande e porre questioni (gruppi di elaborazione)
.
Anche rispetto al tipo di conduzione il confronto in classe ha mostrato che la preparazione alla conduzione è stata per tutti sui generis e che ognuno col tempo ha sviluppato in modo empirico un proprio stile e delle motivazioni e finalità proprie.
La nostra posizione nel gruppo
Anche la nostra posizione in gruppo é un elemento da padroneggiare. Vi sono varie configurazioni possibili. E' utile imparare a riconoscere in quale delle configurazioni elencate ci troviamo nelle nostre relazioni di gruppo perché ognuna ha punti deboli e punti di forza:
1^ posizione: io al centro e gli altri in cerchio attorno a me.
In tale configurazione ciascuno comunica prevalentemente con me ed io smisto la comunicazione fra i singoli. Io dico: tu, tu, tu.
In realtà la posizione 1 non configura propriamente un gruppo. E' una organizzazione più comoda ed economica ma probabilmente potrei fare lo stesso lavoro coi singoli. Il gruppo qui esiste solo perché c' é il conduttore. La responsabilità prevalente é sua. In questo caso può però accadere facilmente che gli altri isolino il centro, il conduttore.
2^ posizione: io sto un pò ai margini del cerchio.
In tale configurazione dico: Voi. Più che altro osservo l' intreccio delle comunicazioni fra gli altri.
Nella posizione 2 il gruppo esiste in sè ed ha relazioni e dinamiche proprie. Io ne sono relativamente coinvolto.
"Voi" state facendo il gruppo.
3^ posizione: io sono esattamente come uno dei tanti nel cerchio della comunicazione (un pò dentro e un pò fuori, come tutti). Nella 3^ posizione sono un pò coinvolto e un pò no.
In realtà nel corso della stessa riunione ci si trova spesso in tutte e tre le posizioni. Del resto la salute sta nella varietà, nella circolarità, nella flessibilità e nel mutamento (no schemi fissi).
Gruppi con gli utenti: obiettivi e tipo di conduzione
Con gli utenti si organizzano gruppi per:
1) fare attività (sono eterocentrati, centrati sul fare qualcosa)
2) discutere (capire qual é il problema, far esprimere, far "sentire")
3) imparare
4) decidere
5) prendersi cura
Dal punto di vista della conduzione, tali gruppi richiedono atteggiamenti diversi e una maggiore o minore democraticità.
E' importante cercare di indagare che tipo di gruppi usiamo abitualmente e che tipo di conduzione scegliamo.
Esperienze di lavoro di gruppo coi pari (colleghi)
Io frequento settimanalmente le riunioni presso un CPS di Milano. In tale sede la mia struttura, inizialmente priva di preparazione e sostegno interni, ha finito per cercare negli psichiatri degli stessi servizi invianti una sorta di supervisione. Così che le informazioni date in spirito di trasparenza e collaborazione finiscono per essere usate per la guerra fra servizi invianti e presidenza dell' ente in cui lavoro.
Anche ciò offre diversi spunti di riflessione.
Nel lavoro di gruppo con colleghi o pari occorre porre attenzione a diverse variabili.
Il gruppo può essere stabile (con forte investimento affettivo). Oppure può essere occasionale (e qui di solito ci sono minori componenti affettive).
Un' altra analisi meritano i componenti del gruppo (per ruoli, responsabilità, gerarchie). Sono in gioco obiettivi personali di tutti i partecipanti (voglia di affermazione, progetti economici, motivazioni, voglia di imparare, desiderio di servire).
Tali aspetti poi variano se siamo in un gruppo formale o in uno informale.
Poi é importante cogliere il modo di esercitare la leadership in un gruppo. Leggere come ognuno di noi fa pesare la propria idea ecc.
E' necessario valutare il grado di chiarezza e di condivisione degli obiettivi di lavoro (anche in relazione all' ideologia della struttura che non può risultare totalmente incoerente con la visione degli educatori).
Va fatta chiarezza sugli obiettivi istituzionali e su quelli operativi (di lavoro) del gruppo, che spesso non sono coincidenti.
Il gruppo poi si colloca in un proprio spazio e in un proprio tempo che si sovrappongono agli spazi e ai tempi (a loro volta distinti e altrettanto dinamici) della struttura, dei singoli utenti e dei singoli operatori.
Occorre infine farci domande su:
1) aspetto del controllo (sul funzionamento del servizio).
Il controllo é delegato a esterni o é autoreferenziale?
2) confini delle riunioni, campi e poteri.
Tali aspetti sono chiari e ben definiti?
3) attese personali legate alle riunioni.
Quali sono le aspettative che ciascuno ripone nella riunione?
Anche qui la confusione dei piani può produrre seri inconvenienti: aspettative frustrate, informazioni incaute, manipolazioni ecc.
Conclusioni sul tema del gruppo
In sintesi in tutti i gruppi di lavoro occorre interrogarsi per identificare:
io (e anche gli altri)
1) cosa cerco 1) cosa porto
2) aspetti di distruzione 2) aspetti di costruzione
(rispetto agli obiettivi del gruppo)
3) tipo di leadership
4) tipo di equilibrio fra compiti e affetti
5) tipo di conduzione (direttiva o non direttiva)
6) cosa garantisce coesione al gruppo (nemico comune/ragioni affettive/un compito).
Spesso l'analisi di questo aspetto ci consente di cogliere l' eventuale patologia di un gruppo.
La dinamica del nemico (la droga, i comportamenti ecc) ad es. é assai forte nelle comunità per ex tossicodipendenti.
Spesso ci si accorge che in molti dei nostri Servizi c' é una tendenza a confondere tutti i piani. Ci si compatta sull' ideologia per poi far lavorare gratis. I volontari sono soci con un potere, i lavoratori no ecc.. L' appiattimento sull' ideologia alimenta continue lotte intestine (perché appunto la discussione non riguarda obiettivi di lavoro ma linee di fedeltà). Oppure un problema di lavoro viene travestito da problema morale, come evidenziato dalla discussione sul caso seguente.
Quale é il problema e di chi? (Discussione sul caso proposto da R.)
L' evento manifesto é costituito dal nascere di una relazione di coppia nella comunità di R. (fase di rientro).
Prima acquisizione importante: discutendo fra noi scopriamo che di fronte ad ogni situazione problematica occorre capire in primo luogo quale è il problema e di chi. Se una situazione ci pone degli interrogativi, occorre innanzitutto chiedersi: quale é davvero la domanda?
Il caso dunque riguarda la coppia A/C. Il problema, per R., pare riguardare la sessualità dei due e l' effetto della loro relazione sulla comunità.
Dopo la discussione noi abbiamo invece visto emergere un altro problema assai più reale e condizionante: l' impasse dell' équipe di R. (non condivisione).
L’ emergenza C./A. svela in realtà il problema dell' èquipe in cui non c' è accordo, non c' è pensiero, non c' è una linea, non c' é prevenzione, così che gli eventi producono inevitabilmente una spaccatura.
Quanto al vissuto c' é poca lettura dei bisogni della coppia e degli altri utenti e poca consapevolezza delle dinamiche destabilizzanti che una coppia mette in moto in un ambiente che enfatizza l' appartenenza al gruppo e gli aspetti (pseudo) familiari della convivenza in comunità.
Il mandato
Inoltre R. ha dimenticato che noi abbiamo un mandato concordato col servizio inviante. Il mandato definisce gli obiettivi di lavoro, al di là delle nostre opinioni o posizioni ideologiche (che devono restare al margine). Nel caso di R. non si é data la triangolazione servizio inviante/utente/operatore. R. ha ricoperto da
Spesso dimenticare il mandato favorisce sentimenti di onnipotenza che preparano l' inevitabile senso di frustrazione.
In una èquipe attenta, invece, la novità destabilizza ma promuove nel contempo un vantaggioso riposizionamento che possiamo assecondare tramite monitoraggio, verifica, revisione.
Fare le domande giuste
Di fronte ad ogni evento dobbiamo imparare a "fare le domande giuste!"
E cioé:
Quale era davvero la domanda?
Nel luogo di lavoro cosa facciamo?
Di cosa davvero ci sentiamo investiti?
E ancora: che rapporto c' é fra me e il mio problema di lavoro?
Chiarire se c' é una relazione é già una risposta importante.
Le risposte a tali quesiti ci aiutano a trovare la misura fra onnipotenza e paura di saltare.
Spesso c' è l' illusione che una maggiore professionalità ci dia tutte le risposte. In realtà bisogna lavorare sapendo che non avremo mai tutte le risposte! Rinunciare all' illusione di aver sempre pronte risposte standard, preconfezionate.
Occorre cercare strategie, metodi. Trovare il modo per raccogliere nuove informazioni.
Non confondere i piani (ad es. il mio e l' altrui apporto nella situazione. Quel che oggettivamente dipende da lui e quanto dipende da me, da mie paure, da miei preconcetti ecc.). Spesso trascuro il problema che mi riguarda (come persona e come educatore) e lo fuggo cercando di oggettivarlo, di collocarlo in qualche fatto esterno. Così, ad esempio la sieropositività e la sessualità di C. sono il pretesto per celare il vero problema: R. non si sente in un' équipe che consenta di lavorare armonicamente.
Un altro modo per occultare nostri problemi (cioé nostre inadeguatezze) é il denunciare (come sovente si fa) i comportamenti manipolatori degli utenti. In realtà é proprio su questi elementi che l' educatore deve lavorare ("cerchiamo di capire assieme perché cerchi di manipolarmi").
E occorre fare altre operazioni ancora. Pensare modi nuovi per guardare diversamente la situazione che ci mette a disagio (assumere un altro sguardo, cercare nuove prospettive e nuovi punti di vista).
L' Ente, l' appartenenza e il controllo
In molte delle nostre strutture vige un sistema di forte controllo interno (che in passato spesso accentrava tutto nelle mani di uno solo). Il problema era (e spesso é ancora) quello della appartenenza (concetto che ha una valenza essenzialmente ideologica). Se il fulcro della struttura é l' appartenenza, gli aspetti tecnici del lavoro divengono secondari mentre divengono fondamentali gruppi con forte carattere simbolico e rituale, che potremmo definire "gruppi di identificazione".
Ma perché mai, per occuparci delle persone, occorre tanta ideologia?! Si parte sempre dall' idea preconcetta che per lavorare con le persone occorra prima "avere una filosofia" condivisa. Non é più opportuno, al contrario, interrogarci prima sul lavoro che facciamo e solo dopo, eventualmente, discutere delle idee?
La prima domanda da porci é: siamo utili alle persone? Poi, casomai, ci interrogheremo sulle idee.
il caso proposto da R. é emblematico. Qui la scena é completamente occupata dal dibattito ideologico fra gli operatori. In queste condizioni c' é poco spazio per l' ascolto degli utenti.
Spesso si sceglie di lavorare per i disagiati, mentre sarebbe più utile lavorare con loro.
Cos' é (per me) l' educatore?
C' è l' utente con la sua storia. I servizi invianti concordano con lui e con noi un progetto riabilitativo. Ci affidano un mandato. L' équipe segue il progetto in costante scambio coi servizi.
L' educatore, coerentemente con quanto discusso e concordato in équipe fornisce il proprio sostegno per la realizzazione del progetto individuale.
Gli strumenti a disposizione dell' educatore sono:
- la relazione nella quotidianità
- la capacità di promuovere motivazione al cambiamento
- la capacità di confronto e collaborazione coi colleghi
- la capacità di assumere corretta distanza (vicinanza) rispetto all' utente ma anche al nostro Ente
Occorre empatia (necessaria e sufficiente: "sufficiente passione"). Rispetto delle reciproche individualità: autoconservazione (dell' educatore) e non prevaricazione (nei confronti dell' utente).
Occorre "pressione necessaria e sufficiente" (quanto serve ad attivare, a mettere in moto, perché il movimento dell' utente sia poi autonomo e secondo il proprio "motore").
Premere, contenere e sostenere l' utente mentre lavora a ridurre i comportamenti che lo limitano. Valorizzare le risorse dell' utente e prefigurare (a noi e a lui stesso) sue nuove identità possibili.
Occorre capacità tecnica "quanto basta" (q. b. per leggere una relazione psicodiagnostica e per garantire interventi cauti nei casi non noti o più complessi).
L' educatore può funghere da mediatore della comunicazione. Tradurre all’ utente comunicazioni che egli fraintende. Ma anche favorire la costruzione di ponti relazionali (ad es. con la famiglia dell’ utente).
La costruzione della relazione
Presuppone:
- assenza di pregiudizi
- empatia
- capacità di combattere l' ansia (che di solito porta all' "interventismo", cioè alla pulsione incoercibile a "fare", ad intervenire subito e ad ogni costo).
Il primo incontro
Occorre partire dall' ascolto della persona (senza interpretazioni anticipate). La persona é unica (anche se é un tossicodipendente) ed é un sé, un individuo, anche se è "fatto". Parrebbe un' osservazione pleonastica, ma un assioma di molti programmi per le tossicodipendenze impone appunto di non tenere colloqui con la persona "fatta", quasi sotto gli effetti delle sostanze perdesse la qualità umana.
Nei confronti dei tossicodipendenti spesso v' é il pregiudizio che sia la sostanza ad andare a cercarli (le cattive compagnie ecc.). In realtà in molti casi l' eroina per un bel pò é funzionale al benessere e risponde a disagi profondi, a reali sofferenze. Dunque occorre cercare un contatto senza pregiudizi con le persone.
L' ascolto
Uno degli strumenti a disposizione dell' educatore é l' ascolto. Per discernere occorre ascolto (più che urgenza di rispondere). Solo dopo un ascolto adeguato possiamo proporre nostre ipotesi di lavoro.
Ma cos' é l' ascolto? Varie sono le possibili risposte. In senso positivo l' ascolto può essere:
- interesse alle cose dette
- ascolto con empatia (mi immedesimo per capire)
- ascolto senza pregiudizi (sospensione del giudizio)
Ma esistono anche connotazioni negative:
- ad esempio l' ascolto come "collusione"
Noi dobbiamo saper costruire contesti d' ascolto (con setting, spazi e tempi adeguati).
Le storie di vita
Altro importante strumento di lavoro sono le storie di vita (dell' utente, dell' operatore e della comunità stessa).
Tagliare col passato é un errore (spesso nell' immaginario ingigantisce). Il passato, per esser reso modificabile, deve essere reso presente. L' attitudine a valorizzare la memoria deve divenire consuetudine lavorativa. Troppo spesso invece si trascura l' importanza di creare anche una memoria professionale (es. tenuta archivio - lavoro di follow up).
Analizzando molte situazioni tratte dalla nostra esperienza lavorativa si é evidenziata la necessità di fare domande su tutto quello che può inquadrare il passato non solo tossicologico ma anche socio-cultural-politico dell' utente (e la sua personalità).
Il passato tossicologico può essere illuminante in caso di ricaduta ("ricadute controllate" o pilotate. In tal caso l' eroinomane può utilizzare alcool, mentre il cocainomane tende a delinquere). In caso di sieropositività é fondamentale conoscere la modalità del contagio e inquadrare psicologicamente l' evento rispetto alla persona (é una persona che cercava lo "sballo" o era attento alla propria salute? Quali ricadute psicologiche avrà provato?. Oltre tutto la malattia da una connotazione temporale particolare. Il tempo del sieropositivo si velocizza!)
La domanda di aiuto
Rappresenta un altro tema che ci pone diversi interrogativi importanti.
Soprattutto occorre discernere il suo valore relazionale e cioè:
- cosa davvero mi chiede l' utente qui ed ora ?
- cosa davvero chiede a sé stesso?
- cosa davvero chiede al servizio ?
In realtà ci si accorge spesso che la nostra risposta è secondaria!
Ma occorre appunto la capacità di attendere, mentre di solito siamo tanto ansiosi da precorrere le domande altrui. In tal modo rischiamo di confermare la dipendenza.
Dobbiamo offrire affidamento e contenimento ma poi anche esperienze di autonomia. Occorre aprire all' altro spazi per cimentarsi. Deve nascere un progetto con una persona in evoluzione.
Domanda d'aiuto, ascolto, primo incontro e storie di vita sono aspetti cruciali delle complesse dinamiche relazionali incontrate durante una visita guidata presso una comunità che si occupa di AIDS pediatrico. La casa alloggio residenziale ospita soprattutto madri con bambini sieropositivi. L' invio è fatto di solito dai servizi (di zona o di pronto intervento). Loro propongono un progetto che subisce una prima valutazione dall' équipe ed un approfondimento (con lo stesso adulto). In questo momento si cerca di chiarire quale è davvero la richiesta. Infatti spesso la domanda é di beni materiali (es. la casa) mentre poi l' approfondimento rivela bisogni più complessi e profondi.
Si offre supporto alla genitorialità. A volte aiuto a recuperare consapevolezza e competenza. Talora si tratta di favorire una prima acquisizione del senso di maternità. Intanto si cerca di sostenere nell' elaborazione dell' idea di malattia. Spesso infatti v' é nell' utente scarsa consapevolezza (legata anche ai ritmi e alle abitudini della vita di strada). Oppure vi sono sensi di colpa per l' avvenuta trasmissione del virus al figlio.
La relazione con questo tipo di utenza impone in primo luogo di tenere presente tanto la madre che il bambino. Si tratta di un progetto di due persone, della coppia madre-bambino (più eventuali altri elementi esterni). E' chiaro che in primo luogo la tutela è rivolta al bambino, ma si cerca qui di superare la dicotomia fra servizi infantili e servizi per adulti (che sovente faticano a lavorare in sintonia). La maggiore difficoltà consiste nel capire come entrare in questa relazione. Spesso c' è il rischio di sostituirsi alla madre, o di porsi in competizione con lei fino ad esautorarla. Oppure di esser troppo protettivi, assecondando una molla quasi automatica che spinge la madre a difendere la propria creatura nel branco. C' é anche il rischio di allearsi con una coppia contro le altre. E poi in questo già complesso quadro relazionale si inserisce l' elemento complicante della malattia. Spesso la madre ha paura della morte, delega, affida. In alcuni casi v' é una spinta a scaricare le proprie responsabilità. Si accende allora un conflitto fra la madre e gli operatori che vivono con rabbia questa suo atteggiamento. Un' elaborazione più attenta di tali conflitti ha svelato all' èquipe che ogni caso é a sé stante e che spesso sotto questa apparente volontà d' abbandono si cela in realtà un bisogno (eccessivo) di affidamento, di consegnare sè e soprattutto il proprio bambino a mani più salde.
False emergenze
Occorre promuovere momenti di auto osservazione nel nostro lavoro. Se il luogo é rigido potremo osservare solo ciò che é consentito.
Occorre essere meno reattivi (sia a livello istituzionale che emotivo - personale).
Chiedersi: se lui mi provoca, perché io mi sento provocato? Non negare i miei sentimenti negativi, ma imparare a gestirli. Promuovere una disposizione alla sospensione (perché dobbiamo sempre rispondere subito?).
Occorre prima ascoltare e poi operare.
In realtà non c' é mai emergenza! Il fine del nostro lavoro é il cambiamento nel tempo (proprio il contrario dell' intervento immediato).
Dipendenza ed aggressività
Nel lavoro con le tossicodipendenze occorre definire che tipo di dipendenza uno ha. Non stare sempre sul sintomo (la tossicodipendenze) e stop! Non cadere nel tranello del tossicodipendente il quale ci lega ad un falso problema: sapere come funziona la "scoppiatura". Non etichettare. Costruire comunque un intervento educativo.
C' é un limite personale e l' educatore lavora per spostarlo sempre un pò più in là, con cautela e rispetto e soprattutto senza giudicare. Non é nostro compito sindacare sulla vita intima, sessuale ecc. degli utenti. Inoltre dovremmo ricordarci sempre che uno agisce l' aggressività quando ha paura. Coi tossicodipendenze invece spesso cogliamo la loro aggressività come una sfida.
Accompagnamento
Noi dobbiamo credere a quello che ci dicono gli utenti. Il controllare non é nostro compito o problema. Altrimenti che fiducia possiamo trasmettere?
Se siamo solo dei controllori abbiamo già perso. Noi dobbiamo responsabilizzare, non creare un falso sé. Il controllo passa attraverso la responsabilizzazione. Farsi é doloroso e autolesionista ma uno deve capirlo da sé.
Contenimento
Il contenitore contiene, non espelle!
Quello dell' educatore é un lavoro. Io lavoro in comunità, non sono la comunità. Occorre distanza. E capacità professionale anche nella elaborazione del controtransfert (se uno ha una ricaduta fa del male a sé stesso e non un affronto personale a noi).
L' educatore non é un pranoterapeuta. E non é né un giudice né un poliziotto.
Per chi é la comunità?
Spesso purtroppo la CT é per chi ci lavora e non per gli utenti. Nei servizi per tossicodipendenti un tempo era diffusa una visione poco rispettosa degli utenti, considerati come bambini nevrotici che non volevan cambiare. Oggi per fortuna c' è un pò più di elaborazione e comincia a chiarirsi il risvolto patologico della tossicodipendenza (che in presenza ad es. di disturbi della personalità assolve all' esigenza di costruirsi comunque una identità). La complessità della persona deve spingerci ad osservare ed ascoltare, ad indagarne la storia e il passato.
Problema tecnico e problema morale
Spesso il problema tecnico dell' équipe viene celato e si sposta l' attenzione su di un "problema morale" che di solito riguarda l' utenza. A volte si giudica e condanna (secondo la nostra ideologia) e a volte invece si finisce per giustificare eccessivamente, come se la morale del lavoro fosse diversa, assai più tollerante di quella della nostra vita privata.
Ma il succo dell' operazione resta lo stesso.
Un' altra annotazione da fare (sui casi citati) é questa: nella comunità di S. la morale é predefinita e lascia pochi margini d' autonomia agli operatori. In quella di R. al contrario la morale é poco definita e ciò lascia gli operatori disorientati, in balia di sé stessi, in una destabilizzante indefinitezza di confini.
C'é un' ovvia differenza fra moralità della struttura, degli operatori e degli utenti. Spesso la struttura, di fronte a qualsiasi comportamento "anomalo" degli utenti, si sente direttamente attaccata e si arrocca in difesa.
L' obiettivo del nostro lavoro é sempre legato ad un' etica data. L' importante é esser consapevoli di ciò. Di certo la riabilitazione non deve esser omologazione. In tal caso ne uscirebbe un uomo abile a che? Solo funzionale all' istituzione.
L' accoglienza
Di solito ogni servizio per il recupero dalla tossicodipendenza si struttura in tre fasi: 1) accoglienza 2) trattamento 3) reinserimento.
La descrizione di come si snodano concretamente questi momenti offre chiare indicazioni sulla filosofia che è sottesa, sui carichi personali ecc.. Spesso la quotidianità e l' emergenza impediscono invece di "fermarsi a pensare".
Durante il corso abbiamo dedicato particolare impegno a cercar di descrivere come funziona nei nostri servizi l' accoglienza (intesa non tanto come fase a sé del percorso riabilitativo, ma come momento di accoglimento nel servizio in cui lavoriamo).
Gli strumenti dell' accoglienza sono l' osservazione e l' ascolto. In primo luogo osservazione e ascolto della richiesta dell' altro.:
Cosa chiede:
- a sé
- a me (come persona, non come ruolo)
- alla nostra relazione
Occorre dare significato a quel che accade fra noi. Occorre creare uno spazio neutro, d' ascolto, che non imponga subito un intervento regolativo.
Ma per fare ciò occorre partecipare, sapersi esporre (e contenere!).
E poi chiedersi:
- cosa osservare e ascoltare (il passato? Il non verbale? ecc.)
- come osservare e ascoltare (eliminare gli stereotipi, togliere di mezzo le barriere, compreso quelle "tecniche").
Riporto qui di seguito il sunto di un lavoro da me svolto a suo tempo proprio sul tema dell' accoglienza. Tale relazione ha segnato per me un momento fondamentale di presa di distanza critica dalla mia pratica di lavoro e una tappa - base del mio percorso di crescita professionale.
- L' Accoglienza nel servizio in cui lavoro
(Relazione di Tirocinio del 1° anno - Sunto del lavoro originario)
Mie conclusioni finali sull' accoglienza nel programma per le tossicodipendenze:
Dalle note sopra esposte (qui non riportate) emerge l' immagine di un programma riabilitativo per le tossicodipendenze piuttosto povero di riflessione pedagogica.
Utilizzando lo schema a scatola (input - output) sembra di poter dire che qui i bisogni dell' utente sono ridotti sostanzialmente ad uno: non far più uso di sostanze. E l' output, nel caso migliore, non potrà che essere la riduzione del sintomo.
Vi é una filosofia dichiarata in modo piuttosto enfatico ma altrettanto forte è il peso della dimensione latente, che si realizza attraverso regole rigide ed astoriche, spesso apparentemente "neutre" (look uniforme). Il ritiro degli orologi, ad esempio, rimanda all' imposizione di un tempo esterno (ed estraneo), rigidamente scadenzato per fasi e livelli, anch' esso imposto a tutti, senza rispetto dei bisogni individuali.
Si intrecciano qui i modelli già descritti (scolastico, sanitario, religioso, militare) coi loro pesanti fardelli di aspettative, criteri, giudizi, veti, sanzioni.
L' individualità e la storia personale dell' utente paiono poco rilevanti.
Inevitabilmente un' educazione tutta giocata su "regole" uguali per tutti (e verificabili sulla base del comportamento) si ferma al livello più esteriore del cambiamento. Par quasi di cogliere un certo timore ad andare oltre.
Il programma appare anche più centrato sul "fare cose" che non sull' intrattenere relazioni. Gli elementi relazionali, in compenso, paiono cercare spazio nella sfera della "personalizzazione" (utente che pretende spasmodicamente attenzione o educatore che crea una relazione privilegiata) più che sul piano legittimo della soggettivazione (nel senso di lavoro per lo sviluppo, da parte dell' utente, di una personalità armonica).
La quotidianità prevale sulla progettualità (anche perché tutto discende inevitabilmente dalla Filosofia ed é già definito nei dettagli. Non occorre introdurre alcuna variante, non serve progettare).
In questo orizzonte rigido e spersonalizzante i bisogni dell' altro non emergono e l' altro stesso rischia di ridursi a nostro stereotipo. L' educatore, schiacciato fra un altro stereotipato ed estraneo e un Ente rigido ed impositivo, finisce per cercare una difesa nascondendosi dietro il proprio ruolo. Ma il ruolo é rigido per definizione e la sua difesa diviene arroccamento.
Anche l' analisi del programma dal punto di vista dell' altro schema (servizio - utente - operatore) conferma la rigidità sopra denunciata. Qui il polo "pesante" é quello del "Servizio". Fra le sue voci si dà priorità alla Filosofia e agli obiettivi (ridotti, per la verità alla sola riduzione del sintomo).
L' organizzazione e l' efficienza divengono assai marginali rispetto all' importanza primaria dell' appartenenza e della fedeltà alla filosofia. L' utente entra in gioco solo come variabile passiva, assoggettata ad un progetto altrui e presa in considerazione non per i propri aspetti specifici (personalità, storia ecc.) ma in quanto "categoria" (il tossicodipendente).
L' educatore a sua volta ha un ruolo (stereotipato) decisamente subordinato ai dettami dell' Ente. A lui si chiede fedeltà alla filosofia, flessibilità e disponibilità, nessuna rivendicazione sindacale ed economica. In compenso nessuno indaga sulla sua reale competenza professionale.
Per fortuna osservo che negli ultimi tempi, anche per le mutate normative e per le maggiori richieste dei servizi convenzionati, il mio Ente si sta orientando verso una diversa politica del personale, più attenta alla qualificazione (o quantomeno ai titoli).
La non conoscenza dei nuovi percorsi riabilitativi recentemente intrapresi dall' Ente nel settore delle tossicodipendenze mi impedisce di dare giudizi in materia. Mi auguro comunque che si vada incrementando la possibilità di osservare il nostro lavoro con maggiore distanza critica. Proprio la presa di distanza consente la verifica e l' aggiustamento del programma. Ad un programma flessibile e più aperto ai suggerimenti personali diventa anche più facile aderire in modo sincero e costruttivo.
Come già osservato, in un programma rigido, definito soprattutto dalla "Filosofia", le ipotesi di bisogno scaturiscono più dall' apparato "ideologico" dell' Ente che da reale ascolto dell' altro. Gli spazi per un contatto vero sono minimi. Spesso l' "ordine costituito" é tanto condizionante da innescare meccanismi di trasgressione (da parte dell' utente) e risposta istituzionale, che si susseguono come "agiti" automatici di cui si é in realtà smarrito il senso vero. O meglio, gli operatori, che dovrebbero saper "sospendere" per un momento, darsi tempo, interrogarsi su cosa davvero significhi la trasgressione (per l' utente e per la sua relazione con noi) si vedono costretti a seguire un cliché di risposte istituzionali. Il senso educativo non conta. Quel che conta qui é la prontezza di riflessi. Un pò come fra i pistoleri del Far West. E questa visione "emergenziale" del tempo ci colloca in una dimensione ansiogena che si supera solo con l' interventismo regolativo (non capisco ma agisco). Come se in ogni istante l' educatore dovesse giocarsi la vita dell' utente. Come se persone già tanto compromesse fossero appese al filo del nostro repentino...decisionismo. Ma forse tutta questa frenesia non mira tanto a salvar la vita dell' utente, quanto a tenere in piedi il castello della credibilità dei Ruoli, del Programma, della Filosofia e dell' Ente.
La professionalità, invece, penso possa guidarci in una direzione opposta, quella del cambiamento nel tempo. Per cambiare occorre tempo, pazienza, cautela, pause di riflessione ed autoosservazione (tanto per l' utente che per noi). L' utente può avere anche uscite frenetiche e repentine ricadute. E questo ci ricorda l' inadeguatezza di un modello lineare della riabilitazione (che da tutti si aspetta le stesse cose nello stesso tempo, senza oscillazioni o deviazioni). Il tempo dell' educatore deve esser più ampio, misurato sul lungo periodo, capace di sfuggire la premura e l' ansia.
- L' accoglienza nel servizio per malati psichiatrici
Liquidato questo conto in modo per me sufficientemente rassicurante (nel senso che molte delle riserve che avevo sentito in modo epidermico al mio arrivo nel settore tossicodipendene si sono poi rivelate piuttosto fondate) rimane invece un nodo assai complesso rispetto al mio attuale lavoro di responsabile di una comunità residenziale per malati psichiatrici.
Qui emerge l' immagine di un luogo "nuovo", sorprendentemente libero, una sorta di prateria incontaminata.
Ma se mancano cattivi maestri e retaggi negativi manca anche una qualsiasi riflessione. Pare un progetto nato da considerazioni economiche: c' é una casa da riempire e qualche "paziente" da spostare. Ci mettiamo un' utenza "non troppo grave", personale minimo, rette ridotte, progetto zero. Sapranno i nostri eroi evitare il naufragio?
Anche qui il peso della routine é prevalente. Fra le stesse attività svolte in relazione diretta con l' utenza non poche hanno più carattere di promozione, controllo e verifica di abilità che non di reale scambio e comunicazione. L' attuale disponibilità di personale non ha finora consentito di organizzare sovrapposizioni fra operatori e neppure regolari riunioni d' équipe (con tutte le conseguenze negative a livello di qualità che si possono facilmente immaginare).
Noi effettuiamo incontri settimanali con i servizi invianti presso un CPS. Questi incontri servono a monitorare i casi. Sarebbe davvero importante per noi avere una supervisione. Infatti Il lavoro "in solitario" a contatto con la malattia ha ricadute pesanti dal punto di vista del burn out.
Proposte per la struttura per malati psichiatrici
Alla luce di quanto detto sopra é necessario elaborare un progetto complessivo che definisca motivazione, finalità, tipo di modello educativo ecc. e che disegni le linee guida per ogni intervento da realizzare".
(fine del sunto della relazione di tirocinio del I° anno)
La consapevolezza dello specifico educativo (commento di oggi)
Riguardando con gli occhi di oggi questa relazione mi accorgo di aver saputo cogliere una miriade di punti critici sul piano pratico e organizzativo (non riportati nel sunto) e soprattutto di aver colto il nodo cruciale di un' assenza di progettualità. Quest' anno però tale consapevolezza un pò confusa si é meglio definita. Quella che mancava qui era soprattutto un' idea del ruolo specifico dell' équipe educativa e in definitiva del lavoro educativo da svolgere anche con utenti psichiatrici. La carenza di personale e di organizzazione ci impediva un lavoro adeguato.
Ma é stata soprattutto la scarsa consapevolezza del nostro ruolo di educatori a porci in una posizione subordinata rispetto alle istanze cliniche dei curanti (psichiatri). Ci siamo così condannati ad una sorta di "eterodeterminazione" che ha un pò isterilito il nostro lavoro, confinandolo spesso nel dominio dell' esser indaffarati, dell' "operare" senza pensiero.
Col tempo abbiamo compreso invece che coi curanti era necessario creare un rapporto più dialettico e paritario. Accettare con rispetto le indicazioni cliniche ed attenerci con cura, per le situazioni più nuove o complesse, alle indicazioni dei curanti. Ma costruire poi con il nostro ospite una "diagnosi relazionale". Un rapporto davvero personale, creato nella relazione quotidiana. Questo mutamento di prospettiva ha fatto cadere stereotipi e paure. Abbiamo scoperto che lo schizofrenico ha comunque una sua logica e che ogni ospite é in primo luogo una persona con tutta la sua dignità di uomo, con limiti e fragilità ma anche con risorse e desideri. E il processo di cambiamento (e la cura stessa) parte propio dalla valorizzazione di tali specificità della persona.
Riabilitazione e cambiamento
L' approdo finale offertoci dal corso é che deve essere il soggetto a produrre un cambiamento nella propria vita (autoformazione nel tempo). E' lui il protagonista, mentre l' educatore é colui che fornisce strumenti (e non soluzioni). Questo approccio implica una sospensione dell' ottica punitiva (così presente nel lavoro con le tossicodipendenze). Vuol dire accompagnare in un percorso in cui l' educatore ha solo degli strumenti in più e non contenuti in più.
Qualche conclusione sulle visite guidate
In tutte le visite guidate gli educatori intervistati hanno sottolineato fortemente la necessità e la voglia di pensare il servizio e l' intervento da fare. Pensare non ideologicamente.
Nelle comunità per tossicodipendenti, invece, spesso c' è lavoro senza pensiero, enfasi sul fare, troppa ideologia.
Un altro elemento emerso dalle visite guidate é la necessità di abbandonare l' idea di un intervento modellato su targets. L' idea del target (lavoro coi tossicodipendenti piuttosto che con gli psichiatrici ecc.) rischia di incasellare gli utenti in celle standardizzate e in una idea del bisogno precostituita per categoria. Occorre invece partire dalla lettura del bisogno come si manifesta concretamente nella persona reale.
Un altro contributo é quello (sottolineato ad es. dal responsabile della casa per bambini sieropositivi) della necessità di stipulare un contratto chiaro coi servizi invianti chiamandoli ad espletare alcuni compiti precisi ed irrinunciabili. Con questo ci si toglie da una logica salvifica che ci spinge ad assumerci ogni onere ("ci pensiamo noi! Faremo tutto noi per te").
Occorre rifiutare lo scarico di responsabilità (tanto da parte dell' utente che della famiglia o dei servizi). E così anche nel nostro lavoro, nel nostro Ente e nella nostra équipe occorre definire sempre le responsabilità.